Luisa, infermiera da 27 anni : “ Parlo ad alta voce, così che nessuno possa poi dire che non aveva sentito”
Mi chiamo Luisa, sono infermiera da 27 anni, madre di tre figli di 14, 12 e 9 anni, dopo aver lavorato in ospedale, da quasi 20 anni lavoro in un servizio per le tossicodipendenze. Una notte per caso nel 2011, ho visto una replica dello spettacolo “Ausmerzen”, di Marco Paolini, e ne sono rimasta molto turbata. Lo spettacolo descrive quanto avvenuto in Germania contro gli stessi tedeschi:
«Tra il ’39 e il ’41 nella Germania Nazista, prima di altri, vennero uccisi decine di migliaia di tedeschi: erano bambini e persone adulte disabili o malati di mente, vite “indegne di essere vissute”. Aktion T4 (dall’indirizzo della sede operativa della struttura a Berlino, Tiergartenstrasse 4), il nome più noto per una vicenda poco conosciuta e letteralmente insabbiata per decenni dopo la guerra, è la realizzazione, drammaticamente efficiente, di un progetto di eliminazione del “diverso” e dell’”inutile”. Progetto segreto e ideato da pochi, ma nei fatti realizzato sotto gli occhi di tutti, con una regia attenta a cogliere il consenso della classe medica e della popolazione, indotta a credere che fosse la cosa giusta.» Dal sito ufficiale di Marco Paolini www.jolefilm.com
In quel periodo la mia vita era faticosa e un po’ complicata, e ho attribuito il forte impatto emotivo alla mia fragilità di quelle notti insonni, ma negli anni mi sono trovata a ripensare alle parole e alle suggestioni di quella notte. In realtà mi sono sempre chiesta, da quando lavoro, come fosse stato possibile durante il periodo nazista, ma anche nelle dittature argentina e cilena, o comunista, corrompere tante coscienze insieme per arrivare a tali crimini. Lo spettacolo “Ausmerzen” coglie, secondo me, il cuore del problema descrivendo la lenta opera di addormentamento e addomesticamento delle coscienze, che ha portato tanti medici e infermieri ad accettare e sostenere progetti così contrari all’etica professionale e alla natura umana e che ha condotto tanti genitori a consegnare i propri figli perché “imperfetti”.
Pensavo di essere in ogni caso al sicuro come persona e come infermiera da tale pericolo, e invece mi sbagliavo.
In questi anni ho imparato molto lavorando con persone da molti considerati gli ultimi fra gli ultimi, degni di essere “curati”; ho imparato a non giudicare: premessa indispensabile ad una relazione terapeutica efficace; ho imparato ad attendere il tempo dell’altro, nel tentativo di dar vita ad uno spazio protetto, dove un percorso di consapevolezza potesse iniziare; ho imparato a rispettare le idee di chi avevo di fronte, anche se non le condividevo; ho imparato ad aspettare che la persona davanti a me trovasse le parole per formulare i propri bisogni di salute in modo più chiaro…e ho imparato a sostenere percorsi che sembravano senza speranza o senso, ma che, quando originavano dalla parte più profonda della persona, si rivelavano talvolta sorprendentemente efficaci, e quando fallivano, rendevano più facile la proposta di strade alternative.
Ora mi sono trovata a vivere come in un incubo un po’ astratto che via via mostra la sua pericolosità: la legge 119/2017 in merito all’obbligo vaccinale mi ha costretta a prendere coscienza di una situazione complicata, a studiare, a confrontarmi con altre persone, e soprattutto ad ascoltare storie, tante storie, tutte terribilmente uguali nella loro disperata ferocia, quelle dei familiari dei danneggiati da vaccino.
Come madre, insieme a mio marito, abbiamo portato avanti una scelta prudenziale di astensione dai vaccini, fondata su motivazioni familiari. Io stessa ho sperimentato reazioni da vaccino mediamente gravi e oggettive. Inoltre i miei figli sono portatori di un assetto genetico compatibile con la celiachia, al momento mai manifestata.
Come infermiera ho ritenuto di ricominciare da capo, ad approfondire la questione.
Alcuni dati sono emersi però subito alla mia indagine, primo fra tutti la difficoltà estrema a ottenere un confronto su temi inerenti la medicina di stato. Devo necessariamente usare parole forti, quali censura, intimidazione, sino alla minaccia, per finire con la denigrazione sistematica di chiunque si permetta di sollevare dubbi o anche semplicemente di porre domande. Ciò è quanto il personale medico non allineato sta vivendo sulla propria pelle. Mi riferisco in particolare al Piano Nazionale di prevenzione vaccinale (PNPV) 2017/2019, che a pag. 49 riporta come necessarie:«le azioni di deterrenza e disciplina etica e professionale nei confronti dei medici e degli operatori infedeli che non raccomandano o sconsigliano la vaccinazione».
Come infermiera rivendico la necessità di riaprire un dibattito scientifico ed etico aperto e libero. Pretendo di sapere a chi o a cosa devo essere fedele e perché sulle vaccinazioni non sia possibile valutare un percorso di OBIEZIONE da parte di medici e infermieri, come per altre situazioni delicate.
Mi ha colpito soprattutto la superficialità di questa responsabilità difforme, portata avanti da anni, per la quale una madre ha il dovere di controllare le etichette di cibi, la manifattura dei vestiti, i marchi di qualità dei giochi, al fine di verificarne l’adeguatezza, ma NON DEVE fare domande sui vaccini, sui loro componenti, sugli effetti avversi, sulla loro qualità.
Da una parte è stata espressa la necessità, come responsabilità genitoriale, di sorvegliare e limitare il tempo dei bambini di fronte ai vari schermi digitali, a causa del rischio gravissimo di insorgenza di crisi comiziali, dall’altra la Guida alle controindicazioni alle vaccinazioni ( ISSN 1123-3117 Rapporti ISTISAN 09/13,ISS) a pag. 9 e seguenti afferma che qualora un bambino avesse avuto, per esempio, una crisi epilettica in seguito ad una vaccinazione, può, e dall’attuazione dell’attuale legge DEVE, continuare con le vaccinazioni, al massimo in ambiente protetto, dove cioè ci sia una RIANIMAZIONE. Prescrizione questa che manifesta la consapevolezza del rischio e l’intenzione di ignorarlo.
Io non capisco. Voglio capire. Voglio poterne parlare.
Tutto il resto: il ricatto dell’esclusione dei bambini dalle scuole dell’infanzia, le multe, i tribunali, l’obbligo per alcune categorie professionali, ecc., sono solo una logica conseguenza di questo principio che si sta avvalorando, secondo il quale lo Stato può decidere un intervento sanitario invasivo contro il singolo.
Il fatto che questo non riguardi al momento coloro per i quali il pagamento della multa non comporta un reale danno economico, che potranno aggirare ed ignorare la cosa, pagando se lo ritengono opportuno, organizzandosi altrimenti per i bambini, è solo un segno di questi tempi e forse solo un illusione destinata a fallire, prima di estendersi a tutti.
La manipolazione mediatica per cui si presentano due sole categorie contrapposte: PROVAX E NOVAX, è superficiale, falsa e strumentale, tesa ad innalzare lo scontro sociale.
Io sono contraria come cittadina all’obbligo, perché se c’è un rischio deve esserci una scelta.
Quindi un GRAZIE a Marco Paolini, per l’inquietudine di quella notte, che mai mi ha abbandonato e mi ha permesso ora di riconoscere i segni di questo strisciante e subdolo pericolo che potrei definire il “pensiero unico”, o la “scienza di Stato” a cui tutti, scienziati, medici, infermieri, insegnanti, giornalisti, giudici, …, devono sottostare pena l’esclusione dalla società civile, la perdita del lavoro, ecc. …GRAZIE perché ha portato alla mia coscienza la consapevolezza che certi processi non si avviano da soli e soprattutto non si fermano da soli; nessuna illusione quindi, ma determinazione nell’affermare e perseguire quelli che sono i fondamenti della democrazia e della nostra Costituzione.
Mi è stata chiesta una testimonianza del mio sentire, come madre e come infermiera, e non posso tacere. La mia voce è l’unica cosa che ho per chiedere alla politica il rispetto dell’Art 32 della Costituzione Italiana:
«Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
Eccomi qui, dunque, a testimoniare AD ALTA VOCE il mio dissenso.
“Ad alta voce”, non per prevaricare altre voci, ma perché giunga forte e chiaro, perché nessuno possa dire domani “non ho sentito”, perché chiunque legga queste parole trovi la forza, il coraggio e l’onestà intellettuale di interrogare la propria coscienza e di sostenere la necessità di aprire un confronto libero e democratico su questi temi; “ad alta voce” perché sono pronta ad assumermi la responsabilità delle mie parole. Ho condiviso in famiglia questo scritto perché è anche su di loro che ricadranno le conseguenze del mio agire, se ci saranno. Le reazioni sono state diverse come lo siamo tutti, ma la conclusione unanime: «Se la pubblichi, mamma, devi essere pronta a scriverne un’altra e un’altra ancora…fino in fondo».
E ora la parte più difficile, perché non riguarda me, ma voi, voi che leggete.
Vorrei chiedere tante cose ai giornalisti, ai dirigenti scolastici, agli insegnanti, ai medici e a tutti gli operatori sanitari, ai giudici, e ai politici, ovviamente, ai genitori e a tutti i cittadini ma mi rendo conto che non spetta a me dare risposte, posso solo condividere con voi le mie domande.
Ai colleghi infermieri dico che in questi anni molte cose sono cambiate, e finalmente è arrivata l’istruzione a livello universitario, e ora, anche la conversione dei collegi in ordini professionali.
Eppure l’aria che si respira non è di soddisfazione, pur nelle difficoltà, né di orgoglio per i riconoscimenti così a lungo inseguiti con determinazione e professionalità; fra i colleghi serpeggia invece un senso di svilimento, di mancanza di entusiasmo, di malcelata rassegnazione, certo non per tutti ma per molti.
A me, devo dire, mai è mancato il rispetto verso la mia professione, che in questi anni mi ha portato a confrontarmi con temi difficili.
Accompagnare la persona a fare scelte consapevoli, anche quando non le condividiamo, è difficile ma possibile, e in questi anni la mia professione e il codice etico che ci siamo dati mi hanno sostenuto ogni giorno, così come il confronto quotidiano con i colleghi e con altre professionalità.
Forse sono io in errore, ma dopo tanti mesi, passati a studiare e a tentare di confrontarmi con colleghi timorosi anche solo di ascoltare, sono qui a chiedervi di non rinunciare a discutere queste tematiche, perché sono importanti, perché la storia della nostra professione ci chiama ad essere fedeli solo a chi abbiamo di fronte, in scienza e coscienza, senza farci condizionare da interessi particolari.
Abbiamo solo la nostra voce, ma nessuno potrà tacitarla senza il nostro assenso. Chiudo con il motto del mio collegio, quello di Savona:
“Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola” G.F.
Ringraziando per avermi ascoltata,
In fede,
Luisa Magnone